All’entrata della sala in cui è stato presentato De rerum natura di Nicola Galli è a disposizione un denso libretto di presentazione che intreccia Lucrezio ad Anassimandro, Newton ad Einstein: come non ricordare alcune sperimentazioni post-weberniane di metà Novecento nelle quali la teoria -o meglio “l’atto di pensiero”- non era solo “spiegazione” dell’opera, costituendone piuttosto una cospicua parte integrante?
La struttura di questo De rerum natura muove da un organicismo primitivista e originario, con le Figure atte a nascere/scoprire agendo a terra su un tappeto di suoni acquatici/elettronici, alla conquista della posizione eretta ad articolare una coreografia (omaggio alla celeberrima ‘Son of Gone Fishin’ di Trisha Brown?), nella quale sei giovani e dediti danzatori eseguono una complicatissima partitura costituita da flussi e riflussi creando, con geometrica morbidezza, un insieme fluido e al contempo claustrofobico. Dopo alcuni passaggi in cerchio evocanti (a nostro modo di vedere) le sperimentazioni coreutiche labaniane a Monte Verità, il dispositivo costruito da Galli ritorna all’informe iniziale mostrando il proprio artificio, o meglio la propria lingua: fondale e americane calano a mezz’aria, su musica tellurica e vibratile lo spazio scenico viene riempito di fumo, le luci si abbassano, nella semioscurità di stagliano alcuni parallelepipedi emananti una luce bianchissima, a comporre forme e simbologie: come non pensare al Minimalismo di Morris e Judd, di Andre e Flavin?
Recensione
di Michele Pascarella
www.gagarin-magazine.it
19 ottobre 2019