Bau #2, Una solida anomalia

[vc_row][vc_column width=”3/4″][vc_single_image media=”76314″ media_width_percent=”75″ lbox_title=”yes” lbox_caption=”yes” lbox_social=”yes” media_link=”url:http%3A%2F%2Fwww.paperstreet.it%2Funder-35-e-quel-dannato-bisogno-di-approvazione%2F||target:%20_blank|”][vc_column_text]

[…] Infine, c’è il caso «alieno» di Barbara Berti. Felicemente alieno, diremmo. È alieno perché la coreografa bolognese si dimostra totalmente distante da tutto questo brodo chiamato contemporaneità, e se anche lei, in qualche modo, va a toccare la questione dell’identità con ironia, lo fa in una maniera talmente radicale da sparigliare completamente le carte. Cosa vuol dire? Berti non fa ricorso ad alcun facile sostegno dell’immaginario collettivo, anzi, diserta qualunque assertività, presentando un lavoro che difficilmente trova una collocazione tra danza, teatro o – il sempre comodo faldone – performance. Scena vuota. La danzatrice si muove e parla: non ci racconta una storia, no, sembrerebbe apparentemente commentare fra sé e sé i movimenti – dall’ordine improvvisato e di per sè poco significativi – che va compiendo nello spazio; eppure quel dolce parlottio non ha neppure un gusto propriamente ironico, non si accumula mai, è come se evadesse da sé stesso, dal suo dirsi, quasi non reclamasse attenzione. BAU#2, infatti, è un lavoro incentrato sullo scarto, uno scarto però che non ha una matrice occidentale, non si nega cioè per rinviare a qualcos’altro, è un’autoironia assoluta, completamente distante dalla tentazione dell’analogia. Ineffabile nella sua immediatezza, Berti supera la destrutturazione contemporanea innescando un dispositivo scenico che nel suo tacito dire «non badate a me» porta lo spettatore (laddove l’artista mantenga il giusto equilibrio) a toccare l’impalpabilità della transizioni di stato. Come spiega la fisica quantistica, noi siamo abituati a ragionare in termini di «prima» e «dopo», impacchettando il tutto in un comodo ordine unidirezionale chiamato tempo. Ma il «durante»? che fine fa? Eludendo il suo stesso agire, Berti ci porta esattamente qui. Seppur ancora distante dalla soglia standard dei 50-60 minuti, l’evoluzione di BAU#2 ha dimostrato che il lavoro affonda le radici in una densa ricerca (artistica, coreutica, fisica, filosofica, ecc.) che non si esaurisce nel singolo spettacolo ma va ben oltre: la prova è che i nuovi elementi introdotti rispetto allo studio presentato a Santarcangelo sconvolgono l’assetto iniziale (una seconda presenza in scena, una sedia che vola via, un esplicito cappello inziale) e al tempo stesso lo mantengono pienamente coerente, amalgamandosi al materiale precedente senza quasi neanche dare all’occhio. Che Berti abbia vinto Scenario è forse uno dei segni più incoraggianti degli ultimi tempi. Soprattutto perché non è un segno clamoroso, non incoraggia tutti quanti a salire sul carro per incensare il vincitore di turno e buttarlo via fra due anni. E sicuramente l’artista bolognese (residente non a caso a Berlino) non avrà vita facile nella scena italiana. Ma rimane un segno importante, attraverso cui forse Cristina Valenti e Stefano Cipiciani ci stanno dicendo molto di più di quanto la semplice voce «Premio» non lascerebbe pensare.[/vc_column_text][/vc_column][vc_column width=”1/4″][vc_custom_heading heading_semantic=”h4″ text_size=”h4″]Recensione[/vc_custom_heading][vc_column_text]di Giulio Sonno

www.paperstreet.it
10 gennaio 2018
[/vc_column_text][vc_column_text]Che Berti abbia vinto Scenario è forse uno dei segni più incoraggianti degli ultimi tempi. [/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]